È una serata come tante a Codissago, frazione del comune di Longarone. È un mercoledì di Coppa dei Campioni, e in tv c’è la partita Real Madrid – Rangers Glasgow.
Giuseppe Vazza, 30 anni, Bepi per tutti, è al bar per assistere alla sfida di Coppa e giocare a carte con gli amici. La moglie, incinta, sta trascorrendo qualche giorno in casa della sorella. L’autunno è arrivato, e in Valle del Piave l’aria è già un po’ più fredda. Sono le 22.39 del 9 ottobre 1963, quando 270 milioni di metri cubi di roccia si staccano dal monte Toc e scivolano alla velocità di 110 chilometri orari all’interno della diga che è stata riempita di acqua.
Già, il monte “Toc”, che nel dialetto del posto significa “marcio”. Nonostante le frane dei secoli passati, nonostante le varie perizie geologiche che si sono susseguite a martello, nonostante i segnali che la stessa montagna invia e gli articoli della giornalista Tina Merlin, i lavori per la realizzazione dell’invaso del Vajont vanno avanti senza troppi ripensamenti.
L’8 ottobre anche il direttore delle costruzioni della Sade, la società che sta realizzando la diga, chiede ai suoi superiori di lanciare l’allarme ed evacuare i paesi a ridosso dell’invaso. Il 9 ottobre, gli alberi piantati sul versante che sta per franare si inclinano in avanti e alle 22:39 accade l’inferno.
L’impatto è drammatico; la frana genera prima un terremoto, poi la roccia finisce nell’invaso e solleva una gigantesca onda d’aria paragonabile, fu detto, a una bomba atomica, poi un’onda d’acqua alta più di 100 metri che si riversa sulla valle distruggendo tutto quello che incontra.
Questo, e molto altro, è ciò che racconta Bepi nel suo libro “In meno di quattro minuti. Testimonianza sul Vajont: la strage e l’umiliazione” (per i tipi di Cleup – 2017), scritto 54 anni dopo la tragedia. Un libro che bisogna assolutamente leggere per comprendere ciò che è stato, affinché non accada di nuovo, proprio perché quest’anno ricorrono 60 anni dalla tragedia del Vajont, uno degli avvenimenti più scioccanti dell’Italia del dopoguerra, l’Italia del boom economico che cerca riscatto anche attraverso progetti come il “Grande Vajont”. Nel 2008 l’Assemblea generale dell’Onu l’ha definito, a ragione, un disastro evitabile.
Un libro-denuncia, quello scritto da Bepi, che è la testimonianza diretta, preziosa, di chi quegli avvenimenti li ha vissuti in prima persona, di chi in quattro minuti ha visto morire parenti e amici, sparire una comunità, di chi ha lottato per affermare la giustizia e ancora oggi racconta per coltivare la memoria e l’anima delle giovani generazioni. Bepi oggi ha 90 anni, ed è un socio di Cna Pensionati perché per molti anni, racconta, ha gestito un salumificio. Oggi Bepi si definisce un informatore della memoria del Vajont, per “mettere un piccolo seme nell’animo delle giovani generazioni auspicando che possa germinare”.
È SCOPPIATO UN FINIMONDO. “Quella sera – racconta a VerdEtà – avevo lasciato la mamma e i nonni a casa. Io ero al bar con gli amici, perché mia moglie era da sua sorella. Si è salvata per questo motivo e ha salvato anche me, perché se ci fosse stata lei anche io sarei rimasto a casa. Era un mercoledì. Alle 22,39 è scoppiato il finimondo. Dico scoppiato, perché non avrei un termine più appropriato per spiegare il tipo di rumore che abbiamo sentito. La montagna stava crollando, tutto cadeva, noi scappavamo. In strada il rumore era sempre più forte, non lo sentivi dalle orecchie, perché ti attraversava il corpo fino a farti scoppiare la testa. Una sensazione che ci portiamo ancora appresso”.
IL PRECEDENTE Una ventina di giorni prima Bepi, che riforniva con i suoi prodotti la mensa del cantiere, aveva assistito a un evento significativo. “Mi recavo quai tutti i giorni nel cantiere. Ero insieme alla cuoca quando da una finestra ho visto una fetta della montagna cadere nella diga. Si è sollevata un’onda verticale che si dirigeva verso di noi. Siamo fuggiti, ma l’onda per fortuna si è dissolta. Due giorni dopo non ho trovato più la cuoca. Al suo posto c’era una giovane di Feltre, che rientrava dopo la maternità e che aveva lasciato a casa una bimba di tre mesi. Probabilmente quella notte si era coricata nella baracca. L’hanno ritrovata 200 metri più in alto, smembrata, in mezzo ai rovi”.
LE PERDITE Bepi ha perso la mamma, i due nonni e altri undici parenti. Di sette di loro non sono mai stati ritrovati i corpi. Egli stesso, dopo essere uscito dal bar, fu colpito dall’onda d’aria e di acqua, ma riuscì a salvarsi grazie all’aiuto di un amico. Il papà era in Africa. “Il mio pensiero era per la mamma e i nonni. Quando arrivai nel posto dove presumibilmente avrebbe dovuto esserci la macelleria fui investito da una prima ondata di vento, che ti strappava la pelle, che mi riportò indietro. In quel momento ho visto la mia fine. Correvo, ma non toccavo terra. Questa è la sensazione che ancora oggi mi tormenta, e che si materializza nei miei incubi peggiori. Correvo, e nel correre mi scontrai con un amico che mi sollevò, e riuscimmo a salire in alto prima che arrivasse la seconda ondata, quella di acqua che aveva distrutto Longarone”. Il nonno fu ritrovato ferito sulle macerie di casa. Morì dopo tre mesi a Pieve di Cadore. “La nonna – racconta ancora Bepi – non aveva un graffio ma era coperta di fango e si lamentava. Diceva che i carri armati dei tedeschi non le avevano fatto chiudere occhio. Morì di ictus nove giorni dopo”. Bepi e la moglie persero anche il bambino che stavano aspettando, che purtroppo nacque senza vita.
IL DRAMMA “Di tutti i morti del Vajont – dice Bepi – che furono 1910, solo 702 persone furono riconosciute. All’epoca avevo 30 anni, per cercare i miei trascorsi più di quindici giorni nel campo di raccolta che poi è diventato il cimitero. Li ho visto cose orrende. Ho visto persone disperate che cercavano di accaparrarsi un corpo – è mio figlio questo, no è mio – pur di avere una tomba su cui piangere”.
SI POTEVANO SALVARE? “Sì, avrebbero potuto salvare la gente. Quando capirono che il loro progetto era fallimentare avrebbero dovuto smettere. Dopo questa immane tragedia cercarono anche di farci scendere a compromessi, costringendoci ad accettare dei risarcimenti che in realtà erano delle elemosine, purché rinunciassimo a future azioni nei loro confronti. Un ulteriore accanimento verso i sopravvissuti. Qualcuno ha accettato, perché le persone avevano bisogno di ricominciare. Riuscirono a convincere ad accettare il 94% dei sopravvissuti. Io e mia sorella non abbiamo accettato, e ci siamo costituiti parte civile nel processo. La mia lotta giudiziaria è durata fino al 1982”.
I GIOVANI Ora Bepi, 90 anni, vive con la moglie di 87 anni. Hanno un figlio, professore di genetica umana all’Università di Padova. “Sa, è stato lui – dice non senza una nota di orgoglio – ad aiutarmi con il libro. Sono stato in silenzio per 54 anni perché sul Vajont hanno scritto in tanti, chi a proposito, chi a sproposito. Dopo la tragedia ho ripreso la mia attività e per fortuna sono riuscito a riappropriarmi della mia vita. Poi, negli anni ’90 ho incontrato Marco Paolini (autore del monologo teatrale “Vajont 9 ottobre ‘63 – Orazione civile”, ndr), e ho capito che dovevo testimoniare quanto accaduto. Oggi vado per le scuole, a parlare ai ragazzi, e vedo un’attenzione altissima, vedo giovani avidi di conoscenza, e trovo docenti che preparano gli alunni. Sono stato anche in carcere a spiegare il Vajont ai detenuti.
Perché di Vajont ce ne capitano quasi tutti i giorni”.