Il fenomeno non è di oggi. In principio furono gli ospedali a essere decimati. Si è cominciato a ridurli, ormai da anni, perché – questa è la spiegazione fornita – la crescente sofisticazione delle tecnologie mediche (con costi ancor più crescenti) impone gli accentramenti. E si è presi a ridurli dapprima in montagna e alta collina poi nelle località meno popolate per finire ai centri storici, abitati ormai quasi esclusivamente dagli affittacamere e dai loro clienti. Una politica in stile cane-che-si-morde-la-coda. Si toglie un servizio fondamentale perché serve poche persone, ma senza servizi le poche persone si riducono ulteriormente aggravando l’urbanizzazione, con tutti i suoi problemi, e soprattutto lo sradicamento sociale.
Agli ospedali con il passar degli anni si sono aggiunti banche e uffici postali, ambulatori medici e scuole, pubblici esercizi e negozi. Una sorta di ritirata che ha privato i territori di servizi essenziali. Territori che, in specie nelle periferie urbane, già soffrono condizioni di disagio sociale, economico, logistico cui si aggiunge, così, l’isolamento. E che sia un fenomeno in stile-cane-che-si-morde-la-coda, come scrivevamo prima, lo dimostrano le classificazioni dell’Istat.
L’istituto nazionale di statistica divide i comuni rispetto ai servizi in cinque gruppi: dai poli (dove esistono i servizi, prima di tutto legati a istruzione, sanità e mobilità) agli ultraperiferici, passando per comuni di cintura, intermedi e periferici a seconda della distanza dai poli e quindi dai servizi. Ebbene, nei comuni ultraperiferici, distanti perlomeno 65 minuti dai poli, il trend demografico nell’ultimo decennio è stato costantemente negativo, a testimonianza dello stretto collegamento tra scarsità di servizi e spopolamento, derivato in particolare dalla crisi delle nascite. Chi può, e quindi i più giovani, va via. Rimangono gli anziani, ad attestare il rapporto anche tra scarsità di servizi e invecchiamento della popolazione.
Non tutti i comuni poli, però, vivono la stessa realtà. Nelle grandi città le periferie soffrono spesso, a loro volta, la desertificazione. Forse sarebbe opportuno, ma capisco sia molto complicato, che l’Istat segmentasse in macro-aree le città. Se non lo spopolamento, infatti, la desertificazione colpisce molti quartieri residenziali, in particolare quelli di edilizia pubblica anni settanta/ottanta, gli insediamenti cooperativi, le 167. Un mix sociale accomunato dalla vita in palazzoni enormi, a parallelepipedo, rari trasporti pubblici, rarissimi servizi anche privati, nessun luogo di aggregazione. Per chi ci è andato a vivere quaranta/cinquanta anni fa e oggi ha diversi decenni sul groppone la rappresentazione plastica dell’architettura dell’isolamento. Un isolamento aggravato dal numero decrescente di medici di base che a poco a poco stanno lasciando scoperte larghe fette di territorio.
Un punto molto dolente, studiato anche dalla CNA, è rappresentato dalla desertificazione bancaria. Oltre dieci milioni di italiani vivono in comuni sprovvisti di sportelli bancari. E a essere penalizzate sono anche le imprese, ovviamente artigiane e micro e piccole, che hanno sede in questi comuni, dove se ne contano oltre 265mila. Nel contempo solo un cliente su due usa la cosiddetta banca digitale. In tanti, perlopiù anziani, rischiano quindi l’esclusione sociale per mancanza di competenze digitali e per la ritirata degli istituti di credito. Meno incisiva è la desertificazione postale ma anche su questo fronte si registra una riduzione di presenze. Drammatica la desertificazione commerciale. In poco più di dieci anni i negozi al dettaglio sono diminuiti di oltre il 20 per cento. Un fenomeno che ha colpito sì i paesi di montagna ma ha falcidiato anche le periferie urbane, rendendo la vita difficile ai residenti e colpendone anche il portafoglio. L’assenza o la scarsità di negozi di prossimità non piace. E una zona che non ne dispone vede rarefarsi i possibili acquirenti e di conseguenza registra pure il deprezzamento degli immobili.
Pietro Romano