È il 9 novembre 1989, verso sera. Le masse di berlinesi dell’Est, animate da un misto di rabbia ed euforia, si accalcano nei pressi del Muro di Berlino. All’improvviso, attraversano la barriera di cemento e filo spinato senza incontrare alcuna resistenza. È una notte di grande festa. E il mondo cambia irrevocabilmente aspetto.
D’un tratto, per oltre 17 milioni di tedeschi orientali si allontana lo spettro della guerra, della dittatura e dell’oppressione. L’apertura della “barriera protettiva antifascista”, secondo la dicitura formale del tempo, non dissolve soltanto la Repubblica Democratica Tedesca. Soprattutto, sancisce la fine imminente della divisione del Vecchio Continente in blocchi eterodiretti lungo l’asse Stettino-Trieste.
Lo smantellamento del più tangibile simbolo della cortina di ferro avviene tra la sorpresa e l’inquietudine delle cancellerie europee. Al di là delle inevitabili frasi di circostanza, sia a Oriente sia a Occidente la definitiva apertura del Muro non è un’eventualità pianificata e tantomeno desiderata. La Repubblica di Bonn, già prima potenza economica del continente, s’appresta ad annettere oltre 17 milioni di tedeschi in cerca di Stato. Scenario allarmante specialmente per le classi dirigenti inglesi e francesi, nei cui corridoi governativi circolano alcune domande ineludibili. Cosa ne sarà del delicato equilibrio europeo? I tedeschi sono davvero cambiati? Il collasso sovietico ci conviene sul serio? Il mondo sprofonderà nella terza guerra mondiale?
Preoccupazioni esagerate, forse. Certo è che in quelle settimane il mondo si prepara a superare l’ordine bipolare, epoca di pace calda travestita da guerra fredda. È un punto di non ritorno. Il 9 novembre 1989 avvia infatti un percorso che condurrà in poco tempo alla riunificazione tedesca, all’implosione dell’Unione Sovietica, alla ratifica del trattato di Maastricht e alla carneficina della disgregazione jugoslava. Una traiettoria pressoché inflessibile che si protrae fino al nostro presente.
Una volta crollato il temibile nemico sovietico, gli Stati Uniti sono travolti dall’esultanza collettiva. All’interno dei poteri washingtoniani si impone a poco a poco una nuova corrente di pensiero, incarnata principalmente da ideologi neocon come Irving Kristol, Paul Wolfowitz e Francis Fukuyama, il fortunato teorico della “fine della storia”. Questi considerano l’America il nuovo egemone planetario, misura di tutte le cose. Qualcuno parla di una “Nuova Roma”. Altri si occupano di stilare ricette per rendere il mondo americano. Premessa di un impero senza limiti, in cui il libero mercato – e non la guerra – regolerà i rapporti tra gli Stati. Contraddizione geopolitica.
A distanza di trentacinque anni, quel mondo e le sue promesse ci appaiono terribilmente distanti. Poiché quella notte a Berlino la storia non è finita. Al contrario, ha ripreso a correre all’impazzata. Privato del nemico sovietico, essenziale per fissare una missione comune e mantenere alta la guardia, l’Occidente a guida americana si è scoperto in trappola, impossibilitato a gestire il moto non uniforme di un mondo sempre più incontrollabile.
Questa realtà si è palesata negli ultimi tre anni. L’invasione russa, le crescenti interruzioni nelle catene di rifornimento, il conflitto in Medio Oriente e le tensioni su Taiwan non sono altro che esiti distinti del medesimo fenomeno: la transizione egemonica. Ossia il declino della Pax Americana. Non è un caso che l’ondata di crisi che oggi sconvolge il nuovo (dis)ordine mondiale si sia accesa negli spazi di soglia dell’impero informale a stelle e strisce. Gli avversari dell’America – su tutti Cina, Russia e Iran – si muovono là dove le garanzie di sicurezza statunitensi sono più fragili.
Meglio però non trarre conclusioni affrettate. Sarebbe troppo semplicistico stabilire che la caduta del Muro di Berlino abbia innescato il suicidio della potenza americana. Non siamo di fronte all’imminente fine degli Stati Uniti. E nemmeno dell’Occidente strategico, di cui noi italiani siamo culturalmente e materialmente un pilastro fondamentale.
Nulla è deciso a priori, dunque tutto è possibile. Eppure, piaccia o meno, siamo entrati in un’epoca in cui linee rosse, attori e poste in gioco sono sempre meno definibili. Le gerarchie globali e i nostri tradizionali punti di riferimento, fissati con minuzia nei decenni dell’ordine bipolare, risultano oggi sfocati. Non potremo più affidarci alle vecchie certezze. Poiché il tempo dell’ordine è passato.
Giacomo Mariotto
(Analista geopolitico collaboratore di Limes)